Quella fessura tra noi e il nulla

C’è una fessura tra l’essere e il nulla. È lì che albeggia il tremore dell’esistenza, la morte.
La morte non è solo un termine, ma è l’orizzonte dell’esser-ci, il silenzio che tutto avvolge.

Non un fine, non un evento, la morte apre la possibilità più propria che in ogni istante ci chiama a una comprensione più profonda del nostro essere-gettati-nel-mondo.

Nel pensiero di Heidegger – cui chiaramente mi sto riferendo – la morte è il compimento dell’essere-per-la-morte; non un’ombra da cui fuggire, ma paradossalmente il faro che illumina il nostro cammino, che rivela l’autenticità dell’esistere.

La morte è la banca universale del tempo e, come tale, preposta a darci un anticipo del nulla, consentendoci, se vogliamo, di dischiudere alla sua presenza il vero essere: perché è un invito a vivere con pienezza, a rimanere fedeli, nonostante tutto, a quell’essere che mai ci abbandona.

Non è solo negazione, no. È l’apertura verso l’oltre, il richiamo a un vivere autentico, a un’essenza che si compie nella fragilità del nostro tempo finito.

E quindi? Cosa è il vivere autentico? Come restare fedeli a sè stessi?

Il segreto di noi esseri umani è di essere gettati senza scelta nel fluire incessante del mondo.

Non siamo una mera presenza, ma un progetto in divenire, una possibilità aperta tra le ombre e le luci del quotidiano.

L’esserCi heideggeriano è un’eco profonda, un richiamo all’autenticità, dove l’essere-gettati s’intreccia con la nostra finitezza, con l’angoscia e la meraviglia del vivere.

Nel pensiero di Heidegger, esserCi è un destino condiviso, una giostra tra l’inizio e la fine, dove il mondo non è solo lo sfondo e la quinta del palcoscenico, ma il tessuto intricato – complesso sì ma non indistricabile – del nostro esistere.

Siamo qui e ora ma non senza significato. Ogni nostro passo è un atto di scoperta, ogni respiro, una dichiarazione di quella verità che si cela nel semplice esserCi. E nell’accettare il nostro essere-gettati, troviamo l’invito a vivere con coraggio, a navigare in questa incertezza del mondo che a volte ci sommerge, a essere, in ogni istante, fedeli a noi stessi e a ciò che ci definisce.

Un quasi monologo di Maurì

L’asfalto sembra bollire sotto le scarpe. Si formano bolle che si spaccano al mio passaggio.

Devo ricordarmi del caffè. Lo scrivo. Non ho penna.

Ma poi non c’è neppure caldo, anzi.

Il carrellino.

Sui banchi la merce sfavilla. Pasta e posta, pacchi e pistacchi, olio d’oliva non saliva di semi, lattine pelati, tonno, salumi del secolo dei lumi, lo penso forse in maiuscolo, ma non scrivo, la frutta e poi la verdura, ecco il formaggio

(buongiorno, anche lei qui, mi lasci qualcosa, ahah),

pecorino, lo grattugio io? I surgelati. Prendo i surgelati ho la borsa frigo.

Filtra qualche raggio di sole.

Luci spente. Solo. Mi aggiro nel labirinto osservando prezzi ingredienti valori nutrizionali, ma non ci vedo bene.

Cavolo. A quanto il cavolo?

I prodotti sono sistemati per genere e specie, secondo un piano marshall studiato a tavolino (Lino, ciao. Che coincidenza? No, pensavo al tavolino, lascia perdere).

Sì, studiato per favorire un acquisto e scoraggiare una marca. Perchè? Ecco il caffè.

Prendo questo. Sant’Ambrogio si avvicina. Ricordo le mura rosse della chiesa, il chiostro rostro inchiostro, il campAnile, le passeggiate lungo le navate le chiacchiere con Elisa e lungo i muretti in estate comitive di lucertole accostarsi all’erba.

Vescovo. Un po’ troppo violento per i miei gusti. Quanto avevo in storia? Il caffè. Ecco prendo la marmellata di arance amare, nessun dorma e poi anche – chi arriva alla frutta è una signora che ho già visto, prende? Non ancora, verdura iceberg, ora guarda osserva, tasta è senza guanti, non sceglie.

Maurì, ciao. Ciao Enrica. Saluta tua madre. Non so se sia ancora viva. Certo, mi chiede sempre di te. E’ viva.

Alle casse non c’è nessuno, vabbè faccio ancora un giro.

Ai vini, vado. Etichette colorate, varie, non come una volta, solo rosso e nero etichette, barchette, se avessi soldi un gommone, un copertone come quelli dei film anni ‘60, bianconero juventus ieri, batte la Dea, che fortuna, la Coppa.

E’ viva ancora la mamma di Enrica, ma quanti anni avrà?

Il vino quello dentro però non è cambiato, quel granata così intenso rubino brullante da brulla brillante da perla come il girocollo comprato a mamma cinquantacinque anni fa, ma come è possibile se non ce li ho neanche, vabbè, occhio al carrello, me lo porto dietro qui, ci sono ancora melagrane, sono quelle spagnole, aspre, brutte, no no non ne compro. Sono spagnole come tutta la frutta. Brutte. Non ne compro. Non ne compgo, diceva quel campanaro francese, era gobbo, francese lì a santa lucia, non ne compgo gaudioline pilips. Lo volevano fghegaghe. Torno indietro. Di nuovo. Rissa in vista, ressa. No, dai. Crema di cacao con nocciole. OK. Ma perché comprare tutta questa roba.

Consumare è un po’ morire, direbbe Moravia. No Pasolini. Dico per dire. Come tutti. Ma dico, se non ci fosse linguaggio ci sarebbe pensiero? E al contrario, viceversa, persa la minestra, quattro cardi in padella, buoni. Certi modi di dire, se li ripeti e ti concentri perdono il loro significato. Perdono. Perdòno. Perdonò Gesu, Maometto sia santificato il suo nome e la montagna che va da lui. La Chiesa di Santa Lucia, quante risate da bambini. Perdono il loro significato e si afflosciano come palloncini bucati. Che poi il palloncino bucato è come un pizzicato al violino: roba per bambini, per carillon di ballerine.

Genesis. From revelation.

Bene.

Ho comprato quello che non mi serve, ma il caffè c’è. Alla cassa Francesca, ora mi chiede tessera e lotteria scontrino. No, non ho il cellulare e non mi ricordo il codice. La cifra, direbbe chi lo direbbe?

Il mio codice è non stare troppo presente, con la coscienza, dico. Ti tiene legato al concreto che poi non so se sia anche il reale, il concreto.

Però sono io a essere creato dagli oggetti, prima ero nulla. Oggetti? Vabbè chiamali come vuoi. Cose, altri esseri. No altri esseri no. Genitori, come vacche, e tori, mori, cori, Lori che bella – era bella – E invece per andare oltre, per volare laddove il pensiero non è pensiero, fuori dalla coscienza. Si può? Fuori da/di/da/di sé. E in questo gli esseri sono tutti uguali, non uso uomini perché non è vero. In tante cose siamo u-guali i-dentici. Barzellette da bar-zolle-tette.

Nessuno è meglio ma diverso.

Anche tra esseri e galline. Anche le galline esseri. Caerto si legge certo?

Nessuno è meglio e siamo più banali di quanto supponiamo e non vorremmo. Ho dimenticato anche le banane.

La luce è cambiata qua fuori pensare all’estate quando dicembre incalza è strano ti sembra impossibile che esista la possibilità dell’estate possibile impossibile eppure in argentina lo è estate dipende dall’inclinazione terrestre, inchinati o inclinati per me è lo stesso, quella ragazza inchinata così, i raggi del sole come se fosse una ruota ma la ruota i raggi li ha dentro il sole fuori li emette, e i ponti che collegano il mondo dei morti a noi dove li mettiamo? ponti di piante, non quelle dei piedi chissà se sto soliloquando quando quando dimmelo. Ma non capisco perché a luglio alle otto di sera ci sia più caldo che a mezzogiorno a dicembre quando il sol è su il sol deformazione da cantante lirico, lirica da lira che è strumento ma anche strumento per scambiare merci, non doni, non regali. Regali viene da re? I raggi del tramonto di luglio sono più perpendicolari alla terra di quelli di dicembre col sole allo zenit. A casa, Bene.

Fornace.

Hai preso tutto?

No solo quello che mi hai scritto.

Che palle.

Sì ho preso tutto, anche il detersivo per i piatti e la Terra è talmente grande per noi formiche che ci sembra piatta, con i sensi.

Sensi senza senso. Cavalli a dondolo che non ho mai avuto.

“La mente ci inganna”. “Parla per te”

Se fissiamo con gli occhi un punto al centro di certi disegni, o di determinate macchie appositamente create, colori o spirali che ruotano, subito dopo e per qualche secondo vediamo tutti – magari dirigendo lo sguardo verso una parete bianca – la stessa stessa immagine-fantasma. Un’immagine costruita “virtualmente” dal nostro cervello. Oppure, osservata la foto in bianco e nero di un paesaggio campagnolo ed esposti successivamente alla visione di colori coloratissimi (🤪), quella stessa fotografia, per una manciata di secondi, ci apparirà magicamente colorata dai colori “giusti” della natura: erba verde, cielo azzurro ecc…
Volete sapere perché succede? Non ne ho la più pallida idea.
Potrebbe essere il fenomeno che gli scienziati chiamano “afterimage” o “immagine residua”? A naso direi di sì, ma non ho un olfatto molto sviluppato.
Pare che i responsabili di tutto ciò siano i fotorecettori nella retina (coni e bastoncelli) e i neuroni pre-posti a ricevere i segnali.
Può essere che quando guardiamo un’immagine molto luminosa o un colore intenso per un po’ di tempo, i fotorecettori nella retina si affatichino? Può essere, sì. Ad esempio, se fissiamo un punto luminoso rosso, i coni responsabili della percezione del rosso si affaticano (non ci sono più i coni di una volta) e rispondono meno a quel colore. Ecco che allora gli altri coni (che non sono stati sovra-stimolati) diventano più attivi. Questo causa un’immagine residua nei colori complementari dell’immagine originale. Nell’esempio appena fatto, potremmo vedere un alone verde-bluastro quando chiudiamo gli occhi o guardiamo una superficie bianca. La “Persistenza della visione”, l’immagine fantasma di cui prima, sembra essere dovuta al fatto che il processo di “spegnimento” del segnale visivo nel cervello (dopo aver guardato ad esempio una luce intensa) non è istantaneo.
E così via, ad esempio con la Fusione Temporale, per cui i neuroni tendono a “fondere” l’immagine in bianco e nero alternata con un filtro colorato.
I fotorecettori contengono fotopigmenti che cambiano conformazione chimica quando assorbono luce. Quando esposti a una luce intensa, questi pigmenti si “decompongono” e richiedono un po’ di tempo per rigenerarsi. È durante questo processo di rigenerazione che possiamo vedere immagini residue.
Dunque la mente ci inganna.
La mente a volte ci inganna perchè il nostro cervello appartiene alla specie. E appartenere alla specie significa essere frutto filogeneticamente dell’evoluzione. Ci siamo “abituati” da decine di migliaia di anni a sapere che il sole sta su nel cielo, che le cose si muovono in un determinato modo, che dietro la facciata di una casa ci sta l’intero edificio (tranne che a Hollywood) e i nostri neuroni hanno immagazzinato queste informazioni considerandole normali. E l’abbiamo chiamata realtà.
Ci siamo adattati – ma ricordiamoci sempre di non essere perfetti – e continuiamo a farlo modificando (spesso male e spesso contro gli stessi interessi della specie) l’ambiente in cui viviamo. Ma se la mente ci inganna, lo fa anche quando crediamo di essere arrivati all’essenza delle cose, alla loro ultima e più profonda realtà. Infatti tutti i filosofi venuti dopo i presocratici, che erano scienziati, hanno detto la loro ma senza arrivare a una conclusione univoca e definitiva. Per fortuna, dico io: così mi posso inventare tutte le fesserie che voglio, sull’essere e sull’essenza delle cose. A tal proposito (cioè le fesserie), io sostengo che sia la Totalità a detenere il Sapere e lo Spirito Assoluti, l’ Uno, lo Spirito Assoluto, il Sapere Assoluto. Il senso e l’essenza è la Totalità, vivente e non vivente, stelle e virus, pietre e sapiens, scimmie e alberi, vulcani e quasar, poesie e foglie, chimica e mare, energia e Enel energia: tutto si comprende (dalla Treccani: [lat. comprehendĕre e comprendĕre, comp. di con- e pre(he)ndĕre «prendere»] (coniug. come prendere). – 1. a. Contenere in sé, abbracciare, racchiudere: Luce e amor d’un cerchio lui comprende (Dante)]) perchè è nell’abbraccio e nel contenimento che si acquistano libertà e conoscenza. La totalità è l’essenza alla quale appartengono tutte le cose determinate, la moltitudine dell’ente, per dirla in filosofese. Come individui siamo e sappiamo poco: viviamo, moriamo, siamo dimenticati… Ci trasformeremo, ma apparterremo sempre al Tutto anche se forse non per sempre.

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Maurì e nonna

Maurì, svegliati, sono le cinque.

Nonna, io entro alle otto e mezza.

Dalla finestra arrivava ancora la luce del buio. I lampioni al neon sfarfallavano bianco e blu.

Maurì, a nonna, svegliati.

Abbracciai il cuscino dalla parte più fresca, guardai i vetri senza scurini e

Cinque minuti ancora, nonna, e poi mi alzo.

Alle sette riuscii ad alzarmi. Dall’officina sotto casa volavano già gli insulti verso Angelo, ragazzo non troppo sveglio ma con una stretta di mano che avrebbe potuto competere con una morsa d’acciaio. L’uovo sbattuto era sul tavolo e il giallo oro dei suoi riflessi anticipava il sole novembrino, che qui è piuttosto forte.

Maurì, prima lavati e poi colazione. Ascelle e culo, Maurì.

Nooonna!

Credo che me lo ripetesse perché la mutanda mostrava rigonfiamenti indiscreti ma inevitabili. E infatti le abluzioni erano immancabilmente precedute dal rito della masturbazione. Così ero più presentabile.

Arrivavo a scuola cinque minuti dopo il suono della terza campana, il che mi risparmiava dallo stare a chiacchierare e fumare con i compagni. Tutti abbastanza stronzi. La scuola è il ritrovo degli stronzi. Lo scopri dopo ma è la verità.

Maurì, ricordati che sei un La Palma.

Eia nonna.

Eia è un retaggio del Supramonte. Provate voi a gridare sì in modo che lo sentano dall’altra parte. E poi urlate eia. Non c’è paragone. Tre vocali prolungate sono più udibili di una sola. E sono anche più edibili, perchè con il formaggio in bocca si pronunciano meglio loro. Il pecorino dai sapori pastosi con retrogusto cremoso e piccante, dolce e salato.

Eia nonna, sono un La Palma, origine catalana, cagliaritano da diciotto generazioni e continuo a non capire perché certi casteddaius continuano a usare andiguddei e ddoiadi per dire di là e ci sta.

Caro amico, Le scrivo. I politici prima dei social

Immaginate Matteo Salvini e Giorgia Meloni scambiarsi lettere in cui discutono le loro idee sul futuro del Paese, immaginate Elly Schlein e Giuseppe Conte mandarsi biglietti per trovare una posizione comune sulle alleanze elettorali, immaginate Matteo Renzi e Carlo Calenda spedirsi cartoline di auguri. E fare tutto questo riservatamente, in silenzio, senza darne immediata visibilità sui social o in un video. Se non riuscite ad immaginarlo, vi capisco. Ma è esistito un tempo in cui alcuni avversari politici si parlavano, si rispettavano e, se possibile, cercavano punti di contatto, anche quando avevano storie, appartenenze e convinzioni molto distanti.

(Una lettera riservata di Pietro Nenni a Aldo Moro del 17 agosto 1965.
© Fondazione Pietro Nenni)

È uscito in questi giorni un libro che contiene il carteggio, in gran parte inedito, tra il leader democristiano Aldo Moro e quello socialista Pietro Nenni. Sono oltre 300 tra lettere, bigliettini e telegrammi che giacevano da tempo in vari archivi e che un lavoro di scavo e di ricerca ha riportato alla luce. È emersa soprattutto una corrispondenza intima e privata, in cui i due affrontano temi politici epocali, come la scuola, le disuguaglianze, il divorzio, la guerra, ma anche problemi personali e familiari.
In un momento storico in cui nulla è privato, in cui ogni cosa è utilizzata in tempo reale per farne propaganda, quello scambio, durato vent’anni, è sorprendente. Per i toni, per la profondità e per la civiltà delle forme. E poi perché lo possiamo leggere mezzo secolo dopo: cosa resterà della politica di oggi, in cui gli scambi sono fatti per WhatsApp o su X?

Il primo scambio di messaggi, del 1957, fu strettamente personale: la morte del padre di Moro da un lato e l’incidente che aveva procurato a Nenni la frattura di una gamba, dall’altro. I due, che avevano quasi 25 anni di differenza d’età, si davano rigorosamente del “lei” e il rapporto era molto formale ma poi con il tempo e con l’assiduità le cose si sarebbero sciolte.
Sarà Nenni a fare il primo passo e a chiedere, nell’ottobre del 1962, di passare dal “lei” al “tu” e nel settembre 1965, si arriverà anche a un primo biglietto affettuoso di Nenni: «Auguri, caro Moro, per il tuo compleanno. 49 anni! Un sogno per me».

Uno degli esempi più interessanti di cosa significhi un rapporto cordiale anche nelle differenze ce lo mostra un biglietto di Moro che si rivolge a Nenni con garbo anche se è irritatissimo con i socialisti sul caso della Zanzara, il giornale del Liceo Parini di Milano che nel 1966 aveva pubblicato i risultati di un’inchiesta sui comportamenti sessuali degli studenti. Moro scrive risentito: «Consentimi, con amichevole franchezza, di dirti che ha destato in me qualche disagio la tua presa di posizione sulla polemica del giornaletto milanese…», ma poi conclude: «Desidero assicurarti che ci consulteremo con te, prima di assumere un atteggiamento proprio del governo nel suo insieme. Con tanta cordialità tuo Aldo Moro».

Il libro che raccoglie tutte queste carte si intitola “Il carteggio ritrovato (1957-1978)” – Arcadia Edizioni – ed è curato da Antonio Tedesco (direttore scientifico della Fondazione Nenni) e dallo storico Renato Moro, nipote dello statista DC, con due prefazioni scritte dai giornalisti Fabio Martini e Marco Damilano.

Come viene ben spiegato nel testo introduttivo di Renato Moro, il primo grande motivo di interesse della pubblicazione di questo carteggio, al di là del tema “antropologico” dei rapporti politici, è di mostrare il contributo fondamentale che il centro-sinistra diede alla modernizzazione del Paese. La collaborazione tra forze politiche diverse e lontane, come la Dc e il Psi, diede vita ad una serie di governi (guidati da Amintore Fanfani prima e Moro poi) negli Anni Sessanta che furono capaci di cambiare la faccia dell’Italia. Questo ci mostra che al di là delle forme, la sostanza è che una politica capace di analizzare la situazione del Paese, di costruire progetti e di prendere decisioni di lunga visione può fare la differenza. Prendo dal libro alcuni dati che lo dimostrano: la percentuale di italiani poveri passò dal 20 al 3,6%; il reddito medio si moltiplicò 4 volte; la speranza di vita alla nascita salì da 65 a 72 anni e il tasso di analfabetismo crollò dal 14 al 6%.

Il cantiere politico e sociale aperto all’inizio degli Anni Sessanta porterà in un decennio a cambiamenti epocali che nemmeno riusciamo ad immaginare: dall’approvazione della legge sulla giusta causa di licenziamento all’obbligo per gli ospedali di ricoverare chiunque abbia necessità di cure urgenti (non era così fino al 1968!), dallo Statuto dei lavoratori alla pensione sociale, dal diritto di famiglia al Sistema Sanitario Nazionale fino all’istituzione delle Regioni con poteri decisionali. Venne istituita la Commissione Antimafia e, nel 1963, venne scritto per legge: «La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura».

(Una lettera di Aldo Moro a Pietro Nenni del 14 ottobre 1965.
© Fondazione Pietro Nenni)

(Una lettera di Aldo Moro a Pietro Nenni del febbraio 1968.
© Fondazione Pietro Nenni)

L’attività di governo si basava anche sulla fiducia e sulla riservatezza, come ci mostra questa lettera del 18 novembre 1965, dettata dall’urgenza di affrontare il terrorismo sudtirolese che mirava a staccare l’Alto Adige dall’Italia, riportandolo sotto l’Austria e che tra il 1956 al 1967 fece oltre 300 attentati, provocando ben 17 vittime.

Caro Nenni,
ti prego di voler partecipare lunedì 22 alle ore 10, a Palazzo Chigi, ad una riunione ristretta e riservata, per esaminare la questione dell’Alto Adige, in vista di un prossimo incontro segreto, che avrà luogo prossimamente tra diplomatici italiani e austriaci (…) Ti raccomando vivamente di osservare la più grande riservatezza sia sulla riunione sia sul materiale messo a tua disposizione.
Credimi,
Aldo Moro


I due si rispettano sempre e, anche nel caso di dissensi, riescono alla fine a capirsi. Di fronte a una lettera di protesta di Nenni per un’esclusione da un incontro internazionale, Moro replica pregando Nenni «di voler accettare queste considerazioni come un amichevole contributo per la elaborazione di una linea comune». E Nenni, onestamente, ammette due giorni dopo essersi trattato di «un equivoco o, se Moro preferiva, di un suo errore di interpretazione» di quanto gli era stato detto.
Un ulteriore momento di avvicinamento è la vicenda della malattia della moglie di Nenni, alla quale Moro partecipò con molto affetto. Quando, nel 1966, la signora Carmen morirà, Moro, appena ricevuta la notizia, si recherà immediatamente, la mattina presto, a casa di Nenni, per esprimergli tutta la sua vicinanza personale, per poi tornarvi in serata, accompagnato dalla moglie. Nenni lo ringrazierà, poi, per la visita alla tomba della moglie: «È una piaga la mia che continua e continuerà a sanguinare finché nella tomba raggiungerò la compagna della mia vita».

I due si scambiavano anche regali e libri e gli ultimi documenti sono quelli relativi al rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Il 16 marzo 1978 l’anziano leader socialista manda un telegramma alla moglie del leader democristiano: «Sono con lei e con la sua famiglia et con Aldo Moro nell’angoscia et nell’attesa». Il 28 marzo Nenni annota sul suo diario: «Sono affranto per la sorte di Moro». Il 30 marzo: «Non so pensare ad altro». Dopo il ritrovamento del corpo di Moro, assassinato il 9 maggio, il vecchissimo Nenni scrive nel suo diario: «I nostri rapporti furono cordiali e leali», «abbiamo avuto molti dissensi e nessuno scontro». E su Moro: «Era di una grande lealtà», «per lui l’apertura a sinistra era un fattore fondamentale per la società italiana e non un miserabile espediente come per tanti altri», concludendo con una profezia: «La perdita si farà sentire a lungo».

Il libro “Il carteggio ritrovato”, edito da Arcadia Edizioni, curato da Antonio Tedesco (direttore scientifico della Fondazione Nenni) e dallo storico Renato Moro, nipote dello statista DC, con due prefazioni scritte dai giornalisti Fabio Martini e Marco DamilanoPer capire di che uomini parliamo, riporto qui una testimonianza illuminante del giornalista e scrittore Stefano Godano:
«Il 2 dicembre 1973 è la prima domenica di Austerità varata dal governo di centro-sinistra capeggiato da Mariano Rumor con Aldo Moro Ministro degli Esteri. I provvedimenti di blocco totale delle macchine nei giorni festivi, la chiusura dei negozi alle 18.30 e dei cinema alle 23.00, l’anticipo alle 20.00 del TG1 erano stati presi in seguito alla guerra del Kippur, scoppiata nell’ottobre del 1973, guerra che aveva provocato un fortissimo aumento del costo del petrolio, determinato anche dalla chiusura del canale di Suez. Quello stesso giorno a Roma, a piazza Cavour, all’interno del cinema Adriano, si svolgeva la prima importante manifestazione per il divorzio e un gruppo di giovani, all’esterno, faceva volantinaggio e raccoglieva delle firme per il ritiro delle basi militari americane e sovietiche nel Mediterraneo.
All’uscita del cinema Adriano scorgemmo Aldo Moro che camminava completamente da solo nella piazza verso il capolinea dell’autobus. Era vero che il blocco era molto rigido, ma vedere un Ministro salire sull’autobus oggi ci appare qualcosa di inverosimile. E non finisce qui: mio fratello Marco e io decidemmo all’istante di raggiungerlo e salimmo anche noi su quel bus, consegnandogli il volantino antimilitarista. Moro lo prese in mano, lo lesse con molta serietà e da lì partì un dialogo serrato fatto di domande, di riflessioni, di curiosità, di simpatie reciproche che non potremmo mai dimenticare.
Tutto durò almeno mezz’ora e credo che questo piccolo episodio dimostri chi era Moro, quale attenzione avesse per il pensiero degli altri, quale attenzione avesse per i giovani – anche di fronte alle loro intransigenti posizioni –, quale attenzione politica, ma soprattutto umana, per i suoi referenti, spesso rivali nella vita politica italiana. Ma soprattutto dimostra quanto enorme fosse la sua semplicità e la volontà di dare l’esempio di una cittadinanza piena e senza sconti per nessuno».
di Mario Calabresi

CTM e il Poetto

I miglioramenti del Consorzio Trasporti e Mobilità di Cagliari sono evidenti a tutti i cittadini del capoluogo sardo.

Però si potrebbe fare ancora meglio, ad esempio nei collegamenti tra centro città e Poetto, la spiaggia cittadina, anche nei mesi primaverili e non solo in quelli estivi.

Siamo a fine aprile, le giornate sono climaticamente invitanti, i turisti aumentano, le mamme invecchiano (direbbe qualche buontempone).

Bene, a parte gli scherzi, questa mattina, domenica, ho fatto la mia solita passeggiata Amsicora Marina Piccola e ritorno.

Durante il tragitto mi è capitato di vedere alla fermata CTM di Good e a quella del Ponte Vittorio tre gruppetti tra inglesi, russi e francesi ai quali ho doverosamente chiesto se avessero bisogno di qualche indicazione.

Parlate giapponese? ho detto.

No.

Meno male, neanche io lo parlo.

E con quel poco di inglese che capisco mi hanno detto che stavano aspettando l’autobus per il mare, indispettiti per l’attesa non proprio breve.

Ho spiegato che ogni quarto d’ora passa il PF o il PQ. Dicono: “Ma aspettiamo da oltre mezz’ora”. Ci va bene un qualsiasi mezzo, anche a vapore, per recarci in spiaggia. Abbiamo visto più in là dei cavalli (ho pensato al Campo Rossi). Se ne possono noleggiare?

Per farla breve, li ho visti armarsi di legnetti da sci e incamminarsi verso la prima fermata. Ma la prima fermata di cosa? Boh.

Che poi, a dirla tutta, mi è capitato spesso di vedere il PF e il PQ viaggiare insieme, uno dietro l’altro, mentre invece dovrebbero stare ad almeno dieci minuti di distanza. E non credo ci voglia l’intervento di Zeus per programmare i passaggi in tal modo.

Comunque ad Aprile al CTM piace dormire. Spero che a Maggio abbia un po’ più coraggio e metta magari dei bus navetta. Dall’Amsicora a Marina piccola. Così ne prenderei uno anch’io, per vantarmi con mia moglie: oggi ha fatto la passeggiata in tre minuti. Che forte!

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Il fascino lunare di Stonehenge

Stonehenge rimane uno dei luoghi più affascinanti e misteriosi del nostro pianeta. Gli archeologi ritengono che la struttura rappresentasse al contempo un tempio, un luogo sacro, e anche una sorta di osservatorio astronomico, dove celebrare, osservare e predire eventi celesti come solstizi, equinozi, e via dicendo. Nel giorno del solstizio d’estate, ad esempio, il sole sorge esattamente alle spalle della pietra del tallone, un monolite posizionato all’ingresso del circolo di pietre centrale, per poi illuminare la pietra dell’altare posta nel cuore di Stonehenge. La complessità della costruzione fa pensare che sia stata progettata per molte altre funzioni, ma per ora di certezze ce ne sono ancora poche. Un nuovo progetto guidato da English Heritage, organismo responsabile della gestione del sito, vuole cercare di fare chiarezza una volta per tutte, sfruttando un raro fenomeno noto come lunistizio maggiore, che si ripeterà a gennaio del 2025 dopo più di 18 anni di attesa, per capire se il circolo di pietre è allineato non solo con i movimenti del Sole nel cielo, ma anche con quelli della Luna.

L’allineamento con il Sole

Per quanto misteriosi rimangano Stonehenge e la cultura che lo ha eretto circa 4.500 anni fa, alcune delle sue funzioni sono ormai piuttosto chiare. Tutta la struttura infatti è allineata con i movimenti annuali del Sole, che sorge appena a sinistra della cosiddetta pietra tallone nel solstizio d’estate (si ritiene che una pietra gemella sorgesse accanto a quella rimanente, e che quindi l’effetto fosse quello di incorniciare l’alba), e tramonta sullo stesso asse, all’estremità opposta del circolo di pietre, durante il solstizio d’inverno, in un punto in cui nel lontano passato sarebbe stato incorniciato, ancora una volta, all’interno di un trilite (ormai crollato), mandando i suoi ultimi raggi a illuminare l’altare centrale.

L’importanza dei cicli solari per i costruttori di Stonehenge è quindi evidente, e piuttosto ovvia se si pensa che trattandosi di cultura di coltivatori e pastori, il susseguirsi delle stagioni influenzava tutti gli aspetti della loro vita. In questo senso, il solstizio d’estate può facilmente essere immaginato come un momento in cui celebrare i raccolti e la bella stagione, e quello d’inverno l’occasione per propiziare la fine della stagione fredda, visto che il Sole dal giorno seguente torna a muoversi verso le posizioni in cui sorge e tramonta in estate. Meno ovvio, invece, è se la costruzione di Stonehenge rifletta anche l’interesse per marcare i movimenti periodici della Luna nel cielo notturno.

Come il Sole, anche la posizione della Luna segue un ciclo, anche se molto più rapido e quindi difficile da decifrare per gli archeologi che indagano le rovine di Stonehenge. Per questo, gli scienziati che hanno aderito al nuovo programma di ricerca di English Heritage sperano di utilizzare il prossimo lunistizio maggiore, un fenomeno che segue un ciclo ben più lungo di 18 anni e 223 giorni circa, per verificare se la posizione della Luna in questa occasione venga tracciata in qualche modo dalle pietre di Stonehenge.

Cos’è il lunistizio

Per capire cosa sperano di scoprire, è importante avere chiaro cosa sia un lunistizio. Come il Sole, anche la Luna sorge ad est e tramonta ad ovest, seguendo la rotazione quotidiana del nostro pianeta. E come per il Sole, il punto in cui spunta non è sempre lo stesso: il fatto che il nostro asse di rotazione è inclinato, e che anche l’orbita della Luna lo è rispetto all’eclittica, fa sì che questa si muova sull’orizzonte orientale, sorgendo sempre più a nord, per poi tornare indietro e raggiungere un estremo a sud. Il punto più a nord e quello più a sud in cui sorge la Luna nell’arco di un mese sono chiamati lunistizi, mentre gli estremi assoluti di questo ciclo (il punto più a nord e più a sud in cui può sorgere la Luna) sono definiti lunistizi maggiori, e vengono raggiunti una volta ogni 18,6 anni, circa. Essendo dei punti di riferimento fissi, è pensabile che i creatori di Stonehenge possano averli incorporati nella loro struttura megalitica, utilizzandoli magari all’interno di un gigantesco calendario lunare, o come date rivestite di un valore spirituale, simile a quello dei solstizi.

L’indagine

Credit English HEritage

Attualmente, un indizio importante del possibile allineamento di Stonehenge con la Luna arriva dalla posizione delle cosiddette pietre della stazione: quattro grossi massi eretti a formare un rettangolo all’interno del sito, sono posti più o meno in corrispondenza con i punti più estremi raggiunti dall’alba lunare. “Quello su cui i ricercatori dibattono da sempre” spiega Clive Ruggles, Archeoastronomo della Univesity of Leichester in un comunicatoè se si tratti di una scelta deliberata, e in caso di risposta affermativa, come siano riusciti a farlo, e quale fosse il loro scopo”.

Osservando in prima persona i movimenti della Luna nelle settimane che precederanno il lunistizio maggiore, i ricercatori sperano di riuscire ad ottenere indizi preziosi per chiarire questi dubbi, e svelare, una volta per tutti, il rapporto tra Stonehenge e la Luna. “A differenza di quanto accade col Sole, tracciare gli estremi della Luna non è un impresa semplice, e richiede tempistiche e condizioni meteo specifiche”, sottolinea Amanda Chadburn, dell’università di Oxford. “Vogliamo comprendere come fosse sperimentare queste albe e questi tramonti lunari estremi e quali effetti visivi avessero sulle pietre (ad esempio, quali zone rimangono in ombra e quali sono illuminate)”.

I ricercatori, ovviamente, avranno un punto di vista privilegiato per osservare i lunistizi. Ma anche i visitatori potranno partecipare all’evento, con visite notturne, ma anche mostre e convegni. Per chi non avrà modo di recarsi nel Regno Unito, inoltre, English Heritage ha previsto un livestream da Stonehenge nella notte del lunistizio maggiore, quando la Luna raggiungerà il punto più a Sud sull’orizzonte. Per gli interessati, è possibile trovare tutte le informazioni a riguardo sul sito dell’organizzazione.

Simone Valesini – WIRED

Lucie Le Moine: i diritti degli autori e degli illustratori

Mai come negli ultimi giorni si è parlato – a proposito e più spesso a sproposito – di quanto guadagnano gli scrittori. A fare da motore sono state le polemiche intorno alla cifra, vera o presunta, accettata o rifiutata, che l’agenzia letteraria di Antonio Scurati avrebbe richiesto alla Rai per un monologo sul 25 aprile prima oscurato e poi – per fortuna – ampiamente diffuso, e ne è venuto fuori che, a quanto pare, in molti ancora pensano che scrivere non sia un vero lavoro e che non abbia motivo di allinearsi (peraltro molto in basso) ai tariffari che vigono senza nessuno scandalo in tante altre categorie.
Non che il problema sia solo italiano: giorni fa il sito americano Book Riot ha pubblicato un articolo di Rebecca Joines Schinky, Ma quanto guadagnano davvero gli scrittori?, nelle cui prime righe spiccava un consiglio: «Tenetevi stretto il vostro posto di lavoro». E un intero segmento della seconda edizione degli Incontri franco-italiani sul futuro del libro, che ha avuto luogo a Roma, a Palazzo Farnese, mercoledì scorso, ha avuto come tema Formazione, statuto e remunerazione degli artisti in Francia e in Italia.
Il confronto, per la verità, è piuttosto impietoso per quello che succede da questa parte delle Alpi: come ha spiegato l’autrice di libri per ragazzi Lucie Le Moine, esistono oltralpe forme di tutela che garantiscono, se non la ricchezza, una dignitosa sopravvivenza a chi ha avventatamente scelto la strada della scrittura. Interessante in particolare è l’azione della «Charte des auteurs et illustrateurs jeunesse», o più semplicemente Charte, di cui Le Moine è esponente. A margine del seminario le abbiamo rivolto alcune domande.

Lucie Le Moine

Prima di tutto, ci vuole spiegare cosa è la Charte, e quali sono i suoi compiti e obiettivi?
È un’associazione nata quasi mezzo secolo fa, nel 1975, per difendere i diritti degli autori e degli illustratori per ragazzi. È gestita direttamente dagli autori e ha un consiglio di amministrazione di cui attualmente faccio parte. La nostra attività è su base volontaria, ma abbiamo tre dipendenti che consentono di svolgere al meglio la notevole mole di lavoro cui dobbiamo fare fronte. La sfida principale consiste nel rappresentare collettivamente la voce degli autori presso gli organi politici, i dipartimenti governativi e così via, tenendo conto che l’obiettivo principale è quello di migliorare la nostra retribuzione. Ma offriamo anche programmi di formazione e sviluppo professionale, leggiamo e negoziamo contratti, e aiutiamo gli autori a risolvere eventuali questioni fiscali e sociali. Inoltre, forniamo ai nostri aderenti consulenza legale e amministrativa.

Quando parla di un miglioramento della retribuzione, si riferisce a quanto vengono pagati i testi o le immagini, oppure alle attività parallele che sempre di più gli autori – per ragazzi o per adulti – sono chiamati a fare per promuovere i loro libri?
Effettivamente, ormai da molti anni, soprattutto per quanto riguarda gli autori per bambini, buona parte del lavoro si svolge nelle scuole, nelle mediateche, nei festival. Per questo la Charte, fin da quando è nata, si è concentrata in particolare su questo aspetto: abbiamo elaborato dei tariffari che vengono rivisti ogni anno tenendo conto dell’inflazione e che sono stati acquisiti dal Centre National du Livre (l’ente pubblico che in Francia si occupa della promozione della lettura, ndr). Adesso la cifra per tre laboratori, vale a dire per una giornata intera di lavoro, è di 500 euro ed è su questa base che si svolgono le negoziazioni quando un’istituzione culturale vuole ingaggiare autori o illustratori. Quando un festival o un ente non rispetta la tariffa, il socio o la socia si rivolge alla Charte che si incarica di seguire la pratica, ma in linea di massima siamo piuttosto forti su questo versante: se un festival o una manifestazione vuole ricevere una sovvenzione dal Centre National du Livre, è tenuto ad applicare le tariffe fissate, e quindi nel tempo la prassi si è consolidata.

Per la retribuzione del lavoro di scrittura o di illustrazione da parte degli editori la Charte ha fissato dei «paletti» analoghi?
È evidente che questo è un terreno più complesso, perché le variabili sono numerose, ma ci stiano muovendo anche qui, soprattutto per acquisire il maggior numero di dati, con l’obiettivo di arrivare a contrattazioni sugli anticipi e sui diritti d’autore fondate su una maggiore trasparenza. Non ci siamo ancora, però.

Signor Presidente della Repubblica

Signor Presidente della Repubblica,

mi permetto di rivolgermi a Lei nella speranza che Ella possa trovare le forme più adatte, se ci sono, per un intervento autorevole verso i vertici della televisione pubblica e verso i politici italiani affinché svolgano la funzione a cui sono stati chiamati, o eletti, nel modo più dignitoso, rispettoso del prossimo e responsabile possibile. Tutto ciò per la difesa del Paese da possibili derive simil-autoritarie, a mio avviso già visibili.

Sono francamente preoccupato per il modo in cui alcuni intellettuali italiani, penso a Roberto Saviano in particolare, ma anche ad Antonio Scurati, vengono trattati nel Paese da aziende pubbliche come la Rai e da alcuni elementi di spicco della Politica italiana. Facili bersagli del discredito mirato di parlamentari e di elementi governativi.

So che le Sue prerogative, Signor Presidente, sono ben determinate e delimitate, e non prevedono interventi (intendo messaggi alle Camere, ad esempio) a tutela della dignità, della libertà e della sicurezza di scrittori, artisti e intellettuali che criticano il “Potere”. So anche di molte Sue parole, pronunciate in varie ricorrenze, che spesso richiamano l’attenzione su punti delicati delle nostre vicende etico-politiche.

Se io fossi il Segretario di un Partito politico, mi sarei già da tempo rivolto a Lei per esporLe queste preoccupazioni e rivolgerLe un appello.

All’alba di questo nuovo 25 aprile sarà importante sentire nuovamente, e non ho alcun dubbio in merito, il suo richiamo ai più alti valori della Resistenza in relazione a un presente che spesso li dimentica nella sostanza.

La ringrazio in anticipo, a prescindere da quello che potrà o non potrà fare.

Pigi

A Roman celebrity chef’s guide to the best carbonara in his hometown

Tratto dal sito della BBC, un bell’articolo su pasta alla carbonara e dintorni. Se non parlate inglese nessun problema: parlate come magnate.

15 April 2024

By Andrea Carlo

Massimo Mariola Max Mariola pastaMassimo MariolaRoman chef Max Mariola celebrates Carbonara Day, which was created by the International Pasta Organisation and Unione Italiana Food in 2015 (Credit: Massimo Mariola)

Chef Max Mariola believes the sound of pasta being flipped in a pan is the “sound of love”. Here are his favourite carbonaras in Rome to enjoy on National Carbonara Day and beyond.

Mixing yolks, guanciale (pork cheek) and pecorino, carbonara is a carb-heavy take on eggs and bacon, and the true Holy Grail of Rome’s cuisine. It towers over its sibling Roman pasta dishes – cacio e pepe, gricia (pasta with pecorino and bacon) and amatriciana – as the incarnation of all the heart (and heartiness) that goes into Roman cooking.

From the touristy trattorias of the mediaeval Trastevere neighbourhood to the kitchen tables of working-class Ostiense, carbonara can be found as a fixture in any Roman meal – so much so it has even earned itself its own “Day”, celebrated on 6 April. But, for all the love it elicits, the dish can also stir the pot; as is widely known, Romans don’t take kindly to foreigners meddling with the recipe.

some text

The SpeciaList

Max Mariola is an Italian chef and social media personality. Hailing from Rome’s vibrant Garbatella quarter, he became a fixture on the Gambero Rosso TV channel, before accruing over 7.5 million followers from his tongue-in-cheek Instagram and TikTok cooking videos. A culinary expert with hundreds of recipes under his belt, Mariola has recently published a cookbook named after his catchphrase – The Sound of Love – and opened a restaurant in Milan in early 2024.

“We get very jealous over our food,” says Max Mariola, a born-and-bred Roman chef whose breathlessly exuberant cooking videos have led his millions of online followers to herald him as one of the city’s leading culinary experts. “As Romans, we get presumptuous about this sort of thing. You make a dish a certain way, and it becomes the rule of the land.”

But on this Carbonara Day, Max has a secret for the culinary puritans of this world: “it’s a dish whose recipe has changed, and there’s no one way of making it”.

Indeed, while carbonara may have been elevated to culinary sainthood, it’s not quite as eternal as the city itself. This year marks the 70th anniversary of the recipe’s first appearance in an Italian cookbook, in which the listed ingredients – including Gruyère cheese – looked rather different to those used today 

“Some people just add the yolks, others the whole egg. Some mix it all on the heat, some off the heat,” Mariola stated. “Every household has their own way.”

And there’s no shortage of places in Rome to savour such diversity in its full glory. In honour of the city’s most iconic and controversial dish, here are Mariola’s top picks for where to savour a carbonara as la cucina comanda (willed by the kitchen gods).

Andrea Carlo Martinez A waiter holds two plates of carbonara in Roscioli’s Salumeria restaurant (Credit: Andrea Carlo Martinez)Andrea Carlo MartinezA waiter holds two plates of carbonara in Roscioli’s Salumeria restaurant (Credit: Andrea Carlo Martinez)

1. Best for a gourmet dish with the finest ingredients: Roscioli Salumeria con Cucina

Roman cuisine, with its medley of rustic flavours and artery-clogging ingredients, isn’t typically associated with fine dining. But at bakery-turned-restaurant Roscioli Salumeria con cucina, even the city’s most unsophisticated dishes take on a gourmet form.

For Mariola, Roscioli has mastered the art of carbonara to produce Rome’s very own finest spin on the dish.

Tip

“Pay attention to the quality of the pasta and the specific pasta shape each restaurant uses for their carbonara,” says Mariola. “Not all pastas are born equal – each one holds the sauce differently and are what can really make a dish great. Lots of different pastas are used for carbonara, but my personal favourites are spaghetti and mezze maniche (short, tubular ridged pasta); they best complement the sauce.”

The key behind its success? A meticulous attention to sourcing the highest-quality ingredients.

“Alessandro [the owner] is an expert in finding the best natural produce,” says Mariola. “He won’t just talk to you about guanciale or pecorino. He’ll list five types of guanciale, or tell you about the pecorino from Rome, from Amatrice, or another town.”

All of this translates to a carbonara made with what Mariola calls the “top range of pastas”. Roscioli’s dedication to satisfying Rome’s gastronomes started in 1972 with a bakery, which later evolved into a complex of boutique grocery stores and the Salumeria restaurant. But its roots may even date back to two centuries ago, as a Papal census testified to the existence of a bakery as early as August 1824. Its unique layout – part delicatessen, part eatery – is a “feast for the eyes” as well as the palate, as Mariola says.

Its model has clearly appealed to an international clientele, with Roscioli opening a branch in New York City in 2023.

Website: https://www.roscioli.com

Address: Via dei Giubbonari, 21, 00186

Phone: +39 06 687 5287

Instagram: @rosciolisalumeria  

Andrea Carlo Martinez At Flavio al Veloavevodetto, you can enjoy a plate of carbonara while looking onto the remains of a Roman mound (Credit: Andrea Carlo Martinez)Andrea Carlo MartinezAt Flavio al Veloavevodetto, you can enjoy a plate of carbonara while looking onto the remains of a Roman mound (Credit: Andrea Carlo Martinez)

2. Best for giant portions and a historical experience: Flavio al Veloavevodetto

Being served a carbonara inside a literal pile of Ancient Roman trash seems like the setup of a joke. But at Flavio al Veloavevodetto – a cellar-osteria buried inside a 2,000-year-old mound made up of discarded amphora (ceramic pot) fragments – the carbonara is certainly no joke. Indeed, the restaurant’s namesake chef, Flavio De Maio, has been crowned the city’s very own “Carbonara King”.

“Flavio is a madman,” says Mariola. “He’s someone who goes around hunting for the best ingredients, talking to farmers and families. He’ll even go all the way to Abruzzo”.

And at the hands of carbonara royalty, Flavio’s dishes are aptly king-sized. “The portions are huge,” Mariola says, adding in Roman dialect: “You leave feeling che hai magnato [like you’ve eaten]”.

Located in Testaccio, a scruffy, yet lively, neighbourhood whose working-class roots trace back to its Ancient Roman history as an important river port, Flavio al Veloavevodetto is a welcome departure from the centre’s touristy trattorias.

Even the least intrepid of visitors will feel any doubts, about leaving their comfort zone, quickly vanishing upon devouring a carbonara this supreme. The restaurant’s own moniker says it best – “ve lo avevo detto“, or “I told you so”. 

But for those still unwilling to venture too far outside the historic centre’s Aurelian walls, Flavio’s carbonara can also be savoured at another branch, located in the posh, Vatican-adjacent Prati district.

Website: https://www.ristorantevelavevodetto.it

Address: Via di Monte Testaccio, 97, 00153 / Piazza dei Quiriti, 4-5,

Phone: +39 06 574 4194 / +39 06 3600 0009

Instagram: @alvelavevodetto

Andrea Carlo Martinez Chef Teodoro Filippini holds a plate of carbonara — his restaurant’s signature dish (Credit: Andrea Carlo Martinez)Andrea Carlo MartinezChef Teodoro Filippini holds a plate of carbonara — his restaurant’s signature dish (Credit: Andrea Carlo Martinez)

3. Best for a hearty carbonara: Da Teo

Going to Da Teo feels like being invited to a Roman family’s house for dinner. Inside an ivy-covered trattoria in the romantic Trastevere neighbourhood, the conversations are loud, food portions substantial, and you can even spot chef Teodoro Filippini walking around, talking to customers.

“The carbonara is just like the one you have at home,” says Mariola.

Indeed, the trattoria’s flagship dish is hearty, rich and creamy – with a “sapid” touch of grated pecorino providing the “perfect balance of flavours” – as Mariola says.

And the ingredients are fresh and top-notch. “I would bump into [Teodoro] every morning at the market, buying and checking out what produce was on offer,” he says. “Rather than ordering it in like many others do.”

Website: https://m.facebook.com/Trattoria.da.TEO/

Address: Piazza dei Ponziani, 7A, 00153

Phone: +39 06 581 8355

Instagram: @trattoriadateo

Andrea Carlo Martinez Four plates of carbonara in Armando al Pantheon’s kitchen, waiting to be topped with a healthy shaving of cheese (Credit: Andrea Carlo Martinez)Andrea Carlo MartinezFour plates of carbonara in Armando al Pantheon’s kitchen, waiting to be topped with a healthy shaving of cheese (Credit: Andrea Carlo Martinez)

4. Best for a creamier sauce: Armando al Pantheon

In a city chock-full of historic landmarks, being labelled an “institution” is no small feat. And that’s exactly what 63-year-old restaurant Armando al Pantheon is for Mariola, not unlike its neighbouring ancient Roman temple whose name it takes.

“[Armando al Pantheon] is a history in and of itself, a family restaurant,” says Mariola. And it isn’t hard to tell why: its convivial atmosphere and warm interior is covered in old photographs showing different episodes of the very Roman history to which the restaurant itself belongs.

As for Armando’s carbonara, it has become particularly distinctive for its creaminess. The secret ingredient behind its texture may, however, come as a surprise to traditionalists: parmesan.

Indeed, while the ovine, central Italian pecorino has become the standard addition in carbonara’s preparation, Armando al Pantheon uses the northern Italian cow’s cheese to enhance the dish’s flavour and consistency. And for Mariola, this has been its key recipe for success.

“Adding parmesan is an intelligent choice,” he says. “It makes the sauce softer, less aggressive. It just feels right”.

Website: https://www.armandoalpantheon.it

Address: Salita de’ Crescenzi, 31, 00186

No phone number, only online bookings

Instagram:@armandoalpantheon

Andrea Carlo Martinez A plate of carbonara inside Checco er Carrettiere’s courtyard. It takes its name from its founder, Francesco "Checco” Porcelli (Credit: Andrea Carlo Martinez)Andrea Carlo MartinezA plate of carbonara inside Checco er Carrettiere’s courtyard. It takes its name from its founder, Francesco “Checco” Porcelli (Credit: Andrea Carlo Martinez)

5. Best for a more traditional recipe: Checco er Carrettiere

Tucked away in a quaint Trastevere alleyway, Checco er Carrettiere is a true time capsule, imbued with a hefty dose of mid-century nostalgia.

Its oak-panelled walls are covered in sepia photographs, featuring a pantheon of local pop culture deities – from footballers to film stars – accompanying you all the way to a cosy Roman courtyard.

“It’s an iconic place, one that makes you feel at ease,” says Mariola. “It’s like taking a dive into history.”

And Checco’s decidedly robust carbonara has also stood the test of time: a heap of Lagano brand spaghettoni, thick and al dente, coated in a velvety sauce, with a lightly cooked guanciale that maintains its chewiness – “the old way” of preparing pork cheek, says Mariola.

“At [Checco], they haven’t followed trends,” Mariola adds. “They use the region’s classic ingredients.”

Of all the restaurants on this list, Checco er Carrettiere is the oldest, having opened in 1935. It has hosted an impressive array of celebrity icons – including La Dolce Vita director Federico Fellini – and has remained unapologetically “true to itself” throughout the decades, as Mariola notes.

“As soon as you walk in, it has a certain scent, a historical scent if you will,” Mariola says. “It’s the sound of love.

Website: https://www.checcoercarettiere.it/en/checco-er-carettiere

Phone: +39 06 581 7018

Address: Via Benedetta, 10, 00153

Instagram:@checcoercarattiere