Ornitorinchi, pulcini e filosofi

Stamattina sono uscito per andare alla manifestazione per il 25 aprile. Sulla porta dell’ascensore, esattamente sulla chiave che teniamo sempre inserita nella toppa, ho notato qualcosa di strano: un’ombra, una macchia. Immediatamente e in una frazione di secondo ho avuto coscienza del lavorio del cervello alla ricerca di una spiegazione plausibile; la spiegazione di cosa fosse quella macchia e da cosa fosse stata causata. In quella frazione di secondo sono entrato in relazione con alcuni avvenimenti del recente passato, tra cui il furto della chiave, il doppione, la sostituzione e ho valutato la possibilità di una ripetizione, di uno scherzo, di un segno apposto sulla chiave dalla dirimpettaia per non farcela fregare. Poi, la soluzione. Ieri sono venuti dei giardinieri per travasare le piante della terrazza e hanno fatto su e giù con l’ascensore per caricare e scaricale materiale: hanno sporcato di terra la chiave. La soluzione mi ha convinto – c’entra il rasoio di Occam? – e non sono andato oltre, anche se non è certo al 100% che sia quella giusta. Ma era la più probabile.

Una nuova conoscenza. Nella insulsaggine del fatto ho percorso la strada della scienza: fenomeno, ipotesi, analisi, risultato. Magari scoprirò più avanti un nuovo risultato, e vabbè, mi adeguerò.

E allora?

E allora la vicenda mi ha riportato alla mente la questione della conoscenza e di come noi apprendiamo nuove cose. Ad esempio, come fa un bambino a non confondere un cane con un gatto?

Quando mia madre mi fece vedere un cane (doveva essere l’alano che avevamo in famiglia, ma non ricordo niente), come feci poi a sapere che lo erano anche i barboncini, i boxer, i pastori alsaziani; e com’è che non mi sbagliai mai – almeno credo – a distinguerli dai gatti? Eppure hanno entrambi quattro zampe, la coda, la testa, il pelo sul corpo. Quali processi avvengono nel nostro cervello durante il riconoscimento dell’animale? Oppure, considerata la storia plurimillenaria di convivenza tra uomo e cane, abbiamo tra i nostri geni qualcuno addetto alla “caninità”, oppure abbiamo delle strutture innate che messe “a contatto” con l’esperienza si attivano per darci le conferme necessarie?

Platone sosteneva l’esistenza di “idee” universali, immanenti, alle quali facciamo naturalmente riferimento per individuare le forme particolari, contingenti. Umberto Eco chiama Tipo Cognitivo, quello che Platone chiamava “idea”, ad esempio l’idea di cavallo. E spiegando Platone, Heidegger scrive che “idea” è “proteron te fusei”, ciò che è precedente in quanto essere presente, visto, svelato; idea è il nome per indicare l’essere stesso. Gli oggetti, le cose, gli altri animali, sono ciò che è susseguente (das Nachherige) all’essere, che è l’ a priori. Personalmente interpreto questo “a priori” come strutture mentali innate, come dicevo poc’anzi, trasmesseci per via genetica dalla storia della nostra specie. Platone e Kant non potevano immaginare, anche se in un certo senso l’avevano suggerito, il progresso della conoscenza sulla conoscenza.

Se Marco Polo anziché recarsi a Giava, dove credette di vedere “unicorni” – ma in realtà erano rinoceronti – fosse andato in Australia e si fosse imbattuto in un ornitorinco?

Sto citando Umberto Eco, che nel libro “Kant e l’ornitorinco” usa questo strano animale per parlarci della conoscenza e degli Schemi kantiani. Perchè era strano l’ornitorinco, scoperto solo sul finire del XVIII secolo? Animale antichissimo, mediamente 50 centimetri di lunghezza, un paio di chili di peso, coda da castoro e becco d’anatra, niente collo, corpo piatto coperto di peli marrone scuro, niente padiglioni auricolari, quattro zampe con dita (cinque) palmate, ma con artigli; la femmina depone uova però allatta la prole (i capezzoli non si vedono), passa tantissimo tempo sotto il pelo dell’acqua di fiumi e corsi. Era strano perchè non rispondeva a nessuna delle classificazioni di allora.

Chissà cosa ha pensato colui che lo scoprì per primo!? Non gli sarà servita l’esperienza precedente o le conoscenze acquisite per capire cosa aveva davanti. E che nome dargli poi?

I nomi, il linguaggio. I nomi sono convenzioni ma i concetti che richiamano no, sono o dovrebbero essere degli universali. Il nome “ornitorinco” denota un piccolo mammifero semi-acquatico endemico della parte orientale dell’Australia, appartenente all’ordine dei monotremi, cioè i mammiferi che depongono uova invece di dare alla luce dei piccoli.

Insomma, anche se un “muto”, cioè una persona che non parla, sa pensare e conoscere, il linguaggio è il vettore più importante di conoscenza, lo strumento che ci mette in relazione col mondo esterno al nostro Io. Posso sapere un sacco di cose sui dinosauri, di cui non abbiamo esperienza, attraverso la ricerca scientifica che mi ha trasmesso libri, disegni, frammenti d’osso attraverso le parole; posso sapere qualcosa persino sul sarchiapone (animale inventato, oggetto di una burla di Carlo Campanini a Walter Chiari), forse perchè abbiamo come specie una notevole capacità di astrazione. Il linguaggio, il verbo. E la verbalizzazione richiede un emittente, un codice condiviso, un insieme di significanti e significati, una “enciclopedia” che ci permetta di disambiguare il più possibile il messaggio: un processo semiotico esemplificato bene, per me che amo l’enigmistica, dai rebus o ancora meglio dalle crittografie e dalle frasi bisenso (una volta chiamate crittografie mnemoniche).

Ultimamente sto provando a leggere un grande filosofo della conoscenza (che crede di essere un neuroscienziato): Giorgio Vallortigara. Le sue indagini sui pulcini stanno concorrendo ad aprire un nuovo mondo per me: cervello, conoscenza, innatismo, esperienza… Gli esperimenti fatti sui pulcini tenderebbero a dimostrare che alcune “categorie”, come spazio, uguaglianza e diversità, il “concetto” di oggetto, quello di quantità e di numeralità, ecc. sono ormai innate, frutto dell’evoluzione, e stanno nel nostro cervello sin dalla nascita a semplificare e accelerare apprendimento e conoscenza.

Mi pare che il nucleo centrale del suo libro, “Il pulcino di Kant”, sia che la specie sapiens del genere homo abbia un cervello tutto sommato non molto diverso da quello degli altri animali. Almeno sotto determinati punti di vista. Certo, non siamo uguali (non lo siamo neppure tra di noi esseri umani) ma proveniamo dallo stesso processo evolutivo. Processo che si è diversificato, che ha preso mille strade diverse, ma che non ha dato esseri migliori di altri: non siamo superiori, siamo diversi, appunto.

E se proprio dovessimo fare una classifica, beh, secondo me la forma di vita superiore è quella delle piante. Una volta mi permisi di sostenerlo e mi fu risposto che noi siamo superiori perché possiamo uccidere le piante. La prova definitiva che siamo realmente inferiori.

Bene. Dopo questo minestrone di articolo, senza capo né coda un po’ come l’ornitorinco, chiedo umilmente a chiunque voglia correggere le mie imprecisioni di farsi avanti e darmi una mano a capire meglio.

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